In un sistema istituzionale in crisi Pomigliano e Mirafiori fanno storia, non sono solo una questione sindacale, sono un pezzo di riforma dello stato sociale.
Un sistema in crisi durante una crisi economica senza precedenti.
C’è innanzitutto la crisi di Confindustria, estromessa nella trattativa da FIAT non ritenendola in grado di tenere la linea.
FIAT è l’industria italiana che gli italiani pensano presente ovunque nel mondo, certamente ha contribuito a scrivere la storia dell’industria italiana, e probabilmente non solo la storia dell’industria.
La FIAT è stata l’industria privata che ha potuto contare di enormi aiuti e agevolazioni dallo stato ed ha saputo orientare le scelte di governi e partiti ben oltre il sostegno al mercato dell'automobile. Fiat è stata la più internazionale delle imprese italiane, in particolare per i rapporti d’oltreoceano della famiglia Agnelli e per la cultura al capitalismo che è riuscita ad introdurre nel nostro paese.
FIAT è quindi l’industria d’Italia, è sinonimo di progresso e cambiamento e Marchionne lo sa bene: nel mondo globale, FIAT corre più veloce degli altri “italiani”, più veloce di quell’industria incapace di porre lo sviluppo industriale al centro dell’interesse del paese, incapace di scuotere la politica italiana.
Ma qual è la linea che FIAT vuole tenere? Scardinare i rapporti sindacali? Distruggere il modello concertativo fin qui coltivato?
FIAT sembra voler aprire un’epoca nuova, economica e sociale: pur nell’incertezza dei tempi che si profilano innanzi, credo che Marchionne conduca la partita sul terreno globale non rinunciando a contenere in questo terreno anche l’Italia; in questi giorni FIAT investe in Brasile, ma anche a Pomigliano e Mirafiori. Inoltre vuole ammodernare un sistema Italia incapace di progredire, e lo vuole fare in stile FIAT: dettando appunto la linea.
L’accordo di Pomigliano e quello di Mirafiori quindi dettano una linea anche perché nessun’altro muove foglia: se ci sono le condizioni si può tenere la produzione in Italia e con essa migliaia di posti si lavoro, le condizioni si devono trovare nel mercato e devono essere condivise dai lavoratori di quella fabbrica, per quelle condizioni.
FIAT non chiede al governo interventi di economia spicciola ma interventi di sostegno strutturale all’impresa, con l’accordo così formulato FIAT riscrive le regole contrattuali introducendo di fatto un nuovo livello di contrattazione e una sorta di patto di lavoro tra impresa e singolo lavoratore.
Quindi mercato globale e competitività i cui costi oggi sono solo sulle spalle dell’impresa e dei suoi lavoratori.
Qui la parte più pericolosa della linea che FIAT vuole imporre: “americanizzare” il rapporto di lavoro, un vero e proprio cambio culturale, con il rapporto diretto tra azienda e lavoratore, senza intermediatori o rappresentanza eletta democraticamente.
Un modello che nella piccola impresa è quello già applicato ma con regole collettive che ad oggi nessuno contestava.
E’ evidente la crisi delle rappresentanze politiche: non c’è stata una risposta politica alla crisi economica, quantomeno da parte del governo, ma in generale non s’è posto il rilancio dell’economia virtuosa al primo posto dell’agenda politica.
FIAT ha rigettato possibili incentivi all’acquisto di auto nuove giudicandolo piccolo cabotaggio, inquinamento del mercato.
Con l’accordo di Pomigliano e quello di Mirafiori non viene chiesto nulla al governo ma sullo sfondo permane il problema del costo del lavoro: la questione posta della delocalizzazione delle imprese all’estero, ovviamente operazione vantaggiosa se consideriamo lo scenario ormai globale, non ha trovato una politica capace di creare situazioni virtuose per trattenere le imprese come ad esempio la diminuizione del costo del lavoro, la statalizzazione dei costi per la sicurezza, l’abbattimento dell’IVA sugli acquisti, ecc..
Al di là delle proposte è mancato il governo del momento storico, l’idea che la politica debba investire anche sulla questione etica del fare impresa. Mantenere in Italia le lavorazioni e i posti di lavoro anche se il guadagno può essere minore.
La politica non ha tolto dalle spalle dei lavoratori il costo della competizione sui mercati globali delle imprese.
Anzi viene sostanzialmente preso per buono il male minore: mantenere i posti di lavoro in Italia. Qualcuno aggiunge il solito “ma anche”…….
Il degrado della politica è il degrado del paese, cioè si vive di rendita e si cerca solo il profitto personale, non esiste alcuna socializzazione del problema, non c’è solidarietà per il progresso del paese. Diceva Robert Kennedy: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL)”.
Alla crisi dell’impresa e della politica si aggiunge la crisi del sindacato: il sistema sindacale è, come la politica, seduto su se’ stesso, spesso incapace di leggere i tempi.
Al sindacato si devono molte conquiste, tutte battaglie civili importanti, di progresso, oneste (la FIOM ha ragione nel sottolineare il ritorno al passato su due diritti fondamentali dei lavoratori: il diritto ad essere rappresentati e rivendicare ed il diritto alla cura. Sono due diritti costituzionalmente riconosciuti e che proprio la Carta costituzionale dovrebbe porre su basi fiduciarie, fuori dagli abusi).
Ma la trasformazione in “parte sociale generalizzata” del sindacato ha strutturato un modello di rappresentanza poco dinamico, basato su regole contrattuali che hanno valenza nazionale mentre la situazione del mercato del lavoro richiede altro; inoltre ci si trova un sindacato il cui ruolo si confonde volentieri con quello della politica.
Anche in questo caso si doveva prevenire una situazione, destinata a degradare, risolvendo, anche per legge, la questione della rappresentanza, introducendo forzatamente la contrattazione decentrata.
I contratti collettivi nazionali sono tuttora un grande esempio di solidarietà, dove regole difese da chi ha potere di contrattazione, esercitando anche il diritto allo sciopero, garantivano diritti anche a chi non aveva potere di contrattare.
Però l’economia ha cambiato le produzioni e le dimensioni del mondo del lavoro e del mondo nel lavoro.
Si riconosce un certo immobilismo culturale del sindacato, che dovrebbe invece essere componente riformista della società, con la conseguenza di un arretramento del movimento sindacale nella cultura del paese, soprattutto tra le nuove generazioni.
La firma mancante della FIOM ci deve far riflettere sui contenuti di un accordo firmato e lodato dal resto del mondo sindacale. Prevale tra i firmatari dell’accordo la volontà di mantenere in Italia i posti di lavoro, anche rinunciando parzialmente a dei diritti faticosamente acquisiti.
Questo strappo è di fatto una riforma, e come tale deve essere esaminata in prospettiva.
L’incertezza complessiva e la scarsa autorevolezza del quadro istituzionale porta allo scetticismo, al pensare che qualsiasi riforma delle regole sul lavoro vedrà solo il contributo dei lavoratori e profitti per le aziende.
Si è rotto un equilibrio pure basato su regole forse anacronistiche, su stereotipi ma anche su faticose conquiste divenuti diritti e, a guardar bene, non sono questi che evitano la delocalizzazione di un’azienda.
Rimane il fatto che l’accordo di Pomigliano e quello di Mirafiori spostano l’essenza della contrattazione:non è più il lavoratore al centro del sistema di diritti ma il lavoro.
Su queste basi è l’azienda, con la sua produzione, il patrimonio da salvaguardare.
Non si può vivere però fuori dal tempo.
E se FIAT ha dettato la sua linea, occorre il concorso di tutti, per tenere insieme diritti e lavoro, per ritrovare l’equilibrio.
E tornare a far progredire l’Italia, una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.