Non v'è errore più grave in politica del confondere mezzi e fini, invertendo questi due poli tra cui si produce ogni decisione politico-istituzionale.
Quando venne avanzata la candidatura di Venezia a Capitale europea della cultura essa fu concepita esattamente come un mezzo, perché come fine sarebbe stata del tutto superflua o meglio insensata, la nostra città essendo già oggi tra le dieci capitali mondiali della cultura. Ma come “mezzo” questa candidatura è stata messa a servizio di un tentativo ambizioso di riconnessione dei territori del nord-est e di contemporanea apertura agli spazi europeo e mediterraneo, di triplice natura: culturale, economico-sociale e politica.
Culturale, perché all'interno dei territori del Veneto, del Friuli Venezia Giulia, delle Provincie autonome di Trento e Bolzano è collocato un sistema culturale dalle enormi potenzialità che, se interconnesso, costituirebbe nei fatti uno dei primi motori di iniziativa culturale europea.
Dalle Fondazioni Lirico-Sinfoniche al complesso dei teatri stabili, dal patrimonio storico-artistico a quello paesaggistico, dalle reti museali e dei beni culturali agli archivi ed alle produzioni del contemporaneo esiste una pluralità di attori che, se messi in rete, possono agire come un unico corpo culturale collettivo. Si pensi, per esempio, a quale forza d'impatto avrebbe il coordinamento e l'armonizzazione in questo macroterritorio degli interventi in materia di spettacolo dal vivo piuttosto che delle filiera cinematografica e audiovisiva.
Economico-sociale, perché nelle due Regioni e nelle due Provincie autonome la filiera culturale (industrie creative, industrie culturali, patrimonio storico-artistico, performing arts e intrattenimento) non solo occupa stabilmente centinaia di migliaia di persone, ma funge a sua volta da innesco e diviene parte rilevante di altre filiere economiche di eccellenza, come quella turistica e quella agro-alimentare, o come il design e il made in Italy. E fa tutto questo con un’impronta leggera, consapevole e sostenibile.
Del resto è stato dimostrato come l'investimento nella filiera culturale agisce, soprattutto in questi territori, da moltiplicatore della catena economica che vi è coinvolta. Tanto più nell’odierna fase di crisi e recessione concentrarsi con convinzione su questa filiera è un’opportunità per il mondo imprenditoriale che qui si è sviluppato.
Politica, perché attorno a questo modello è possibile concepire anche la produzione di uno spazio politico e amministrativo nuovo, libero dalla stantia ideologia del “fai da te” locale di cui troppo ci si è nutriti in passato, contemporaneamente nutrito dall'ancoraggio a questo capitale culturale e aperto alle contaminazioni e arricchimenti che possono innestarsi lungo le direttrici storiche di cui esso è stato per molto tempo cerniera, verso il nord e verso il sud della regione euromediterranea.
Allora se questa ambizione, se questa sfida è stato il fine che ha ispirato la proposta di candidatura, occorre cambiare campo rispetto a quello in cui si è giocato in questi giorni: non più domandarsi se abbia senso o no mantenere la candidatura (l'arbitro di questo campo, le Istituzioni Europee ed il Governo Italiano con il Bando già emesso, ha già deciso che le candidature dei territori non sono vincenti), ma piuttosto interrogarsi se si è disposti a credere e investire in questa ambizione al di là e oltre la mera candidatura. Se la classe dirigente che anima le istituzioni, gli attori economici, le forze politiche e sociali di questi territori vuole davvero essere misurata sul livello delle grandi scelte che occorre fare per dare futuro al nostro paese essa non può che lasciare il campo arbitrato da altri, e scegliere il campo in cui può essere arbitra di sé stessa.
Questo è il terreno su cui il PD vuole condurre un confronto aperto a tutti. Sta a tutti gli altri decidere se vi siano alternative oppure misurarsi su tale terreno.